Bustina di Minerva
Umberto Eco
02 maggio 2013
Aldo Cazzullo, sul “Corriere” del 25 aprile, ha salutato Enrico Letta (quarantasei anni) come ragazzo degli anni Ottanta, e cioè cresciuto in un decennio in cui si viveva nella febbre del sabato sera, senza grande interesse per la politica.
Cazzullo però ricorda che gli anni Ottanta godono di una fama controversa e, se sono stati per alcuni solo anni di yuppismo trionfante, di Milano da bere, di crollo delle ideologie, per altri sono stati anni decisivi – e io, proprio in una Bustina del 1997, sostenevo che erano stati grandiosi perché ci avevano dato la fine della guerra fredda, il crollo dell’impero sovietico, la nascita di nuove aggregazioni come l’ecologia e il volontarismo, l’inizio traumatico ma epocale della grande migrazione del Terzo mondo verso l’Europa e, cosa che allora non è stata avvertita come il vero inizio del terzo millennio, la rivoluzione del personal computer. Era stato davvero un decennio privo di fermenti? Bene, vedremo in futuro che tipo di generazione ha prodotto, naturalmente Letta è una rondine che non fa ancora primavera e Renzi, nato 11 anni dopo, è diventato adulto solo negli anni Novanta.
Ma il problema mi pare un altro. La crisi recente ci ha mostrato che la generazione dei giovanissimi, nati negli anni Novanta, ha prodotto “movimento” ma non ancora grandi leaders, mentre tutte le discussioni delle settimane scorse si sono svolte solo intorno al carisma di persone che girano intorno o oltre gli ottant’anni, come Napolitano, Berlusconi, Rodotà, Marini, e i più giovinetti erano Amato, settantacinque, Prodi, settantaquattro e Zagrebelsky, settanta. Perché questo vuoto di leadership tra i nati negli anni Ottanta e i grandi vegliardi carismatici? C’è stata un’assenza della generazione nata intorno agli anni Cinquanta, tanto per intenderci, quella che nel 1968 aveva dai diciotto ai vent’anni.
Ogni regola ha le sue eccezioni, e potremmo citare Bersani (1951), D’Alema (1949), Giuliano Ferrara (1952) e persino Grillo (1948), ma i primi tre hanno attraversato il ’68 dall’interno del Pci (e così è accaduto al più giovane Vendola, 1958), e il quarto in quegli anni faceva ancora l’attore. Coloro che sono assenti dall’agone politico e in ogni caso non sono stati in grado di fare crescere un leader di statura internazionale sono gli ex-sessantottini.
Alcuni sono finiti nel terrorismo o in lotte extraparlamentari, altri hanno scelto di rivestire funzioni politiche abbastanza defilate (come Capanna), altri ancora (dimostrando che il loro empito rivoluzionario era solo di facciata o di convenienza) sono diventati funzionari berlusconiani, qualcuno scrive libri o fa l’opinionista, qualcuno si è ritirato in una dolente e sdegnosa torre d’avorio, infine personaggi come Strada si sono dati al volontarismo ma, insomma, nel momento della crisi nessuno in quell’area di età è emerso come salvatore della patria.
È che quei giovani del ‘68, impersonando le tensioni e gli ideali di un movimento che veramente ha sconvolto il mondo intero, ha cambiato parte dei costumi e dei rapporti sociali, ma alla fin fine non ha toccato i veri rapporti economici e politici, erano diventati – giovanissimi – capi carismatici, adorati dai seguaci di ambo i sessi, che potevano trattare faccia a faccia (e magari a pesci in faccia) coi Grandi Vecchi dell’epoca. Presi da delirio di onnipotenza (vorrei vedere voi a finire in prima pagina a diciott’anni) si erano dimenticati o non avevano fatto in tempo a imparare che per diventare generale bisogna iniziare da caporale, poi fare il sergente, poi il tenente e così andando avanti passo per passo. Chi comincia subito come generale (e poteva accadere solo ai tempi di Napoleone o nell’esercito di Pancho Villa, ma si è visto come poi finiva) alla fine torna in fureria senza aver appreso il mestiere (durissimo) del comando.
Come sapevano i giovani cattolici e i giovani comunisti, bisogna fare una lunga gavetta.
E coloro invece hanno bruciato i tempi, e coi tempi hanno bruciato (politicamente) la loro generazione.